Enrico Calcaterra: il “costruttore”

Calca-ghiaccio: per definire l’importanza che Enrico Calcaterra ha rivestito per l’hockey milanese ed italiano basterebbe utilizzare il suo soprannome. Inutile soffermarci sul gioco di parole: Calcaterra è stato elemento imprescindibile per la nascita e lo sviluppo dell’hockey italiano in virtù di una passione senza pari e di un indomito agire affinché questo sport ottenesse spazio e visibilità. Non a caso il suo nome è il primo, tra gli italiani, ad aver avuto l’onore di essere inscritto nella Hall of Fame della federazione internazionale, categoria builder – costruttori- a riconoscimento dell’impegno messo in pista e negli uffici di tutta Europa. Nel nostro piccolo non possiamo che inserirlo nella “Ca’ del Giazz”: non solo come dirigente, ruolo ricoperto per quasi cinquantanni fin da quando era ancora un giocatore, ma anche come primo storico goalie della formazione milanese.

Per dirla tutta non fu il primo in senso assoluto. Non ce ne vogliano Greco e gli altri se le loro sporadiche apparizioni a difesa della gabbia cittadina si perdono tra sbiaditi articoli di giornale. L’arrivo, fra gli altri, di Calcaterra segna il vero momento di svolta: l’hockey si trasforma da manifestazione dimostrativa a sport di squadra degno di andare in scena davanti ad un pubblico sempre più numeroso e appassionato. Nato a Milano il 1 gennaio 1905 non è ancora ventenne quando scende per la prima volta sul ghiaccio. L’esordio ufficiale del Milano al Palazzo del Ghiaccio è infatti datato 3 febbraio 1924 e Calcaterra figura nella tradizionale foto di rito.

Ma è solo dalla stagione successiva che Enrico prende possesso della porta milanese: il 14 gennaio 1925 sostituisce infatti Grego nella partita contro l’università di Oxford.

Solo due mesi dopo, superando il Cortina 9-0, il Milano vince la coppa Cinzano, incontro valido, a posteriori, per l’assegnazione del titolo di Campione d’Italia. Calcaterra inscrive così il suo nome nel palmares tricolore per la prima volta. Il campionato viene assegnato in questi anni con partite secche così per fare esperienza i milanesi sono costretti a continue tournee in terra elvetica. E’ in queste occasioni che Calcaterra e compagni si misurano con squadre più forti e organizzate, migliorandosi continuamente anche grazie agli insegnamenti dei primi allenatori-giocatori, Leon Quaglia e Francesco Roncarelli. Prende forma la nazionale italiana, composta in maniera quasi esclusiva dai milanesi. Tra questi i più attivi nell’organizzare i vari impegni sono Ambrogio Gobbi, primo presidente effettivo della formazione nonchè difensore, Decio Trovati, che inizia la carriera in attacco e nel corso degli anni arretrerà la sua posizione in pista, “tradendo” il Milano per passare ai cugini dei Diavoli Rossoneri e per l’appunto, Enrico Calcaterra, la cui opera non si ferma nell’opporsi alle conclusioni avversarie ma prosegue fuori della pista scrivendo – ovunque – di hockey giocato. Dalle iniziali dei loro cognomi nasce l’”urlo” di battaglia del Milano: CA-TRO-GO, che diventerà il titolo della prima pubblicazione italiana dedicata all’hockey su ghiaccio nel 1931. Milano vince il secondo ed il terzo titolo consecutivo e il Palazzo del Ghiaccio milanese diventa teatro delle prime sfide contro formazioni nord americane, quasi sempre giunte in Europa per giocarsi il titolo mondiale difendendo i colori degli USA e del Canada. Sono sfide impari, in cui i miglioramenti dei giocatori milanesi sono evidenti di partita in partita. Calcaterra, in qualità di portiere, è l’italiano più sollecitato dagli avversari ma le cronache ne tracciano prestazioni sempre all’altezza, pur sommerso, quasi sempre, da numerose marcature. La stagione 1927-28 si disputa lontano da Milano: poche amichevoli visti gli esorbitanti costi di gestione del palaghiaccio. Toccherà a Bonacossa sbloccare la situazione. Nel dicembre 1928 il Milano gioca la Spengler Cup. I progressi milanesi si manifestano all’Europa intera con un incredibile vittoria contro Oxford per 3-1 e sconfitte di misura contro le altre avversarie.

Calcaterra in un intervento “disperato” contro Oxford in Coppa Spengler. A sinistra, giovanissimo, dal libro CA-TRO-GO

Calcaterra è protagonista in casa milanese al pari dell’allenatore-giocatore Roncarelli che sposando di li a qualche anno Erminia Taccani, cugina di Calcaterra, darà il via alla leggenda secondo cui il portiere milanese si sarebbe avvicinato all’hockey grazie a questa parentela acquisita. In realtà, come detto, aveva cominciato ben prima di quell’incontro, scelta quasi obbligata considerando la sua indole sportiva che da ragazzo lo ha visto praticare la corsa, il tennis e il pattinaggio su rotelle. Smette quindi i pattini dalle quattro ruote per calzarne un paio con le lame affilate. I primi, disse in un intervista sul mensile Hockey News (come mancano riviste così ben fatte ndr), procurati da Gaetano De Luca che “fece costruire da un calzolaio suo amico un paio di scarpe che ci sforzammo definire da hockey, i pattini sono arnesi d’acciaio lustro”. D’altra parte “si scendeva sul ghiaccio in pantaloncini di velluto nero e camiciola bianca di seta”. Insomma, in questa primordiale fase hockeistica italiana, la nobile arte del sapersi arrangiare è ben più importante del conoscere i virtuosismi del gioco. Calcaterra, bocconiano, si dimostra sicuramente uno dei più attivi nel lavorare alla crescita del movimento. Spesso, in questa fase, lasciando spazio agli altri nei ruoli dirigenziali, limitandosi dal 1928 ad indossare i panni di “segretario” dell’Hockey Club Milano. Si rifarà abbondantemente nel dopoguerra. Il 15 dicembre del 1931 gioca la centesima gara con la maglia milanese. La grande M bianca campeggia al centro della divisa nera. I giornali celebrano il raggiungimento di questo prestigioso traguardo: i bei momenti si trasformano in bei ricordi di stagione in stagione. Chi è stato così fortunato di accedere al suo archivio ha avuto modo di avere tra le mani centinaia di foto, decine di articoli, testimonianze di ogni genere ma i veri fortunati sono stati quelli che hanno avuto modo di parlare direttamente con lui. Che di aneddoti ne aveva di ogni tipo, come quando raccontò della finale delle Universiadi di Cortina del 1928: con la Polonia, sotto la neve, “i pattini affondavano, si faceva fatica a rimanere in piedi. Ma quanto pubblico! Non ricordo di aver mai ricevuto tanti applausi in vita mia, in tribuna c’era anche Edda Mussolini, perdemmo 5-1 ma fu ugualmente un trionfo”.

Pur tra tante vittorie i ricordi più belli erano legati agli incontri disputati contro le formazioni canadesi: “con loro bastava prenderne pochi!”. Spesso il ruolo ingrato di fare scudo con il proprio corpo alle conclusioni nordamericane toccava proprio a lui.

Ma gli aneddoti più divertenti in fondo erano quelli in cui l’hockey era di contorno, l’ambiente su cui restavano impressi i ricordi di un gruppo di ragazzi, tutti amici fra loro, via Piranesi come la via Pal per Boka e compagni, il ghiaccio come le cataste di legno teatro di epiche “battaglie”. E allora come non ricordare i mondiali universitari di Davos: “spingemmo una mucca sul ghiaccio, ma la cosa più divertente fu quella di farla passare sotto il naso degli integerrimi svizzeri del servizio, senza che si accorgessero di nulla”.

E ancora il ricordo delle trasferte oltralpe come quella di Chamonix dove i francesi “cominciarono a gridare -via Italia-, e uno di noi scavalcò la balaustra, prese il più esagitato tra il pubblico e gli piantò un cazzotto al mento”. O dell'”amico-nemico” Gerosa “che, a differenza degli altri compagni di squadra, si faceva pagare le sigarette”.

E’ stato l’ultimo dei pionieri ad abbandonare alternandosi ai vari Gerosa e De Bernardi, a differenza di questi, senza mai “tradire” il Milano. Le sue ultime apparizioni in pista risalgono al periodo bellico quando, in licenza, torna in città dalla Cirenaica. E’ li probabilmente che viene a conoscenza della morte di Mussi, abbattuto nei cieli nord africani. Al termine della guerra con gli altri veterani organizza la ripresa. Lontano dal ghiaccio questa volta, definitivamente dietro alla scrivania: presidente della federazione di hockey su ghiaccio. E’ in questa veste, sfruttando le sue conoscenze oltralpe, che “tratta” con la federazione internazionale per riportare l’Italia nell’alveo del CIO. Sarà la prima nazione tra quelle uscite sconfitte dalla guerra. Le Olimpiadi di St. Moritz tuttavia si trasformano in un boomerang: Calcaterra non è esentato dalle critiche, a tratti feroci, della stampa. Gli viene addirittura rinfacciata la vittoria “diplomatica” visti gli insuccessi della nazionale, ci si chiede se ne fosse valsa la pena.

Ma il nostro non si perde d’animo, riorganizza il movimento, sfrutta le conoscenze d’oltreoceano per far sbarcare nel belpaese un buon quantitativo di oriundi che alzano il livello del gioco del campionato. E’ in questo frangente, anche grazie alla maggiore competitività, che crescono gli Agazzi, i Branduardi, i Crotti ma anche i cortinesi, guidati dai fratelli Da Rin e diversi giocatori altoatesini. L’hockey cresce in qualità e visibilità e la nazionale si leva la soddisfazione di vincere tre Criterium d’Europa e di ben figurare alle Olimpiadi cortinesi del 1956. Anche in questo caso Calcaterra vanta un piccolo successo “diplomatico”: riesce a far inserire l’Italia in un girone apparentemente abbordabile, con il Canada, l’Austria e la Germania. Il sesto posto sembrerebbe alla portata degli azzurri ma due pareggi e una sconfitta ci condannano al girone di consolazione, poi vinto.

Calcaterra in una foto del 1956

Dal 1952 è presidente della sezione hockey all’interno della neonata FISG, di cui assume la presidenza nel 1961.

In un intervista, poco prima del suo insediamento, delinea le motivazioni per cui l’hockey su ghiaccio italiano resta un parente povero del calcio.

“La ragione principale è la carenza di piste. La Svizzera, che come superficie e popolazione vale pressapoco come la Lombardia, ha quarantotto piste artificiali (di cui 4 con tribune per 18000 spettatori) mentre noi, in tutta Italia, abbiamo solo quattro piste artificiali. In secondo luogo non c’è propaganda perchè non c’è capienza negli stadi per avere pubblico a prezzi popolari. Non c’è poi continuità e sicurezza di spettacolo settimanale. In questa situazione è difficile far conoscere il nostro sport”.

L’attualità di queste considerazione lascia basiti. Settant’anni dopo aspettiamo una nuova Olimpiade per provare a risollevare il movimento azzurro, divisi, da appassionati, tra quelli che ci sperano ancora e quelli ormai rassegnati.

Il suo impegno in prima linea per l’hockey italiano termina nel 1972 quando passa il testimone a Mario Pinferi. Sono ormai lontani i fasti di un tempo: l’hockey italiano si è rintanato nelle valli e i Diavoli, eredi della gloriosa tradizione milanese, sono ormai caduti in “disgrazia”.

Milano tornerà “regina” solo il 2 marzo 1991. Possiamo solo immaginare la reazione di Calcaterra, i suoi sentimenti, i ricordi lontani farsi nuovamente “presente”. Ormai ritiratosi a vita privata muore l’8 giugno 1994 lasciando il suo incredibile archivio di ricordi al figlio Emanuele, che mai, ebbe modo di vederlo giocare dal vivo.

Nel 1999 la chiamata della federazione internazionale, per il riconoscimento postumo dell’ingresso nella Hall of Fame. Oggi, nel nostro piccolo, l’ingresso nella “Ca’ del Giazz”.

Grazie Enrico!

La targa IIHF consegnata ad Emanuele Calcaterra

Author: Claudio Nicoletti